Dopo un anno di attenzione forzata sui problemi della pandemia da COVID-19, in pochi si sono occupati delle problematiche del pianeta in cui viviamo.
Probabilmente non ci siamo accorti delle condizioni di degrado che la terra sta avendo; come riportato da un interessante articolo della prestigiosa rivista Nature (Rif.): “…stiamo oltrepassando i punti di non ritorno uno dopo l’altro, sempre più velocemente, con conseguenze per la nostra vita che saranno immense e imprevedibili...” “In molti si diffonde la sensazione“, cita Krugmann sul New York Times, “che, non più eccezione, le catastrofi naturali stiano rapidamente diventando la nuova norma“(Rif.). È come se vivessimo intrappolati a metà tra il sentimento di un collasso ormai in corso e la paura di riconoscerlo appieno.
Quando pensiamo alla fine del mondo, ci vengono spesso in mente le immagini della più recente fantascienza distopica e post-apocalittica, ma si tratta spesso di simulazioni fortemente stereotipate e caricaturali: probabilmente il decadimento della civiltà, non sarà causato da uno stravolgimento unico e repentino come una crisi nucleare, una pandemia globale, una rivolta delle macchine o un’invasione aliena; semmai sarà il progressivo accumularsi di catastrofi ambientali locali che faranno regredire gli standard di vita degli esseri umani e metteranno in crisi l’ordine sociale.
I più fatalisti profetizzano che il crollo degli ecosistemi porterà l’umanità sull’orlo dell’estinzione – un po’ come avvenne 74 mila anni fa, quando a una portentosa eruzione del Toba (Rif.) seguì un inverno vulcanico che ridusse drasticamente la popolazione umana sul pianeta, forse fino a poche migliaia di individui.
Ma senza fare i nichilisti apocalittici, gli esseri umani hanno il dovere di allentare il loro impatto ambientale, non tanto imponendo limiti alla crescita e al consumo – come sostengono certi “ecologisti negativi” sin dagli anni Settanta – quanto attraverso radicali trasformazioni tecnologiche. La soluzione al riscaldamento globale è nella liberazione, non nella repressione del progresso tecnico della specie e, in modo particolare, nella responsabilità con cui verranno usate tali innovazioni.
Le attuali tendenze ecologiche suggeriscono di realizzare il “disaccoppiamento tra sviluppo sociale e impatto ambientale” (Rif.) con l’intensificazione tecnologica di molte attività umane – urbanizzazione, acquacoltura, desalinizzazione… – per diminuire l’utilizzo antropico di suolo, contenere le pressioni sulla biosfera e rendere meno distruttiva la nostra dipendenza dalle risorse naturali.
Questo processo di disaccoppiamento, scrivono gli autori ecologisti citati nel riferimento precedente, “scardina l’idea comune che la presenza dell’uomo primitivo sul pianeta Terra fosse più innocua di quella del suo omologo moderno”. A loro parere, le tecnologie ancestrali avevano un’impronta ambientale molto più rovinosa delle tecnologie in uso nelle società contemporanee. Ma nella prospettiva della “modernizzazione ecologica” non è nemmeno vero che le motivazioni estetiche e spirituali inducano ad avere cura della natura più dei convincimenti utilitaristici e se si riuscisse a promuovere l’eco-modernismo come nuovo tipo di economia, forse potremmo cambiare il destino del nostro pianeta.
S.S.