Michel – Swissact, il portale del Ticino. News e ultime notizie dal Ticino, Svizzera e estero. https://www.swissact.com News e ultime notizie in tutti i settori: politica, cronaca, economia, sport, svizzera, esteri Mon, 22 Feb 2021 19:17:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.7.11 LA CONTINUA RICERCA DEL SÉ NELLA CONDIZIONE UMANA https://www.swissact.com/la-continua-ricerca-del-se-nella-condizione-umana/ Mon, 22 Feb 2021 15:12:34 +0000 https://www.swissact.com/?p=2826 Simbolicamente, siamo capaci di rispecchiarci in tutto quello che l’immaginazione ci propone, senza esito convincente, oltre ad infilare o a vederci attribuire maschere varie, più o meno congeniali, che accettiamo volentieri o no, di cui siamo consci e non sempre, che talvolta ci restano addosso come un marchio sul bestiame, ma tutto quanto non supera una visione superficiale e spesso solo caricaturale.

Comunque, l’apparenza, in mancanza di approfondimento, del resto raramente possibile, predomina a qualunque livello, ed è ben difficile in queste condizioni, abbozzare un riconoscimento e sviluppare un’empatia, iniziare un dialogo, che si allontanino da riferimenti culturali scontati e da identità sociali che prediligano la funzione e le circostanze, a scapito dell’individuo, notevolmente più complesso, e detentore di una storia che imprescindibilmente, non solo gli è propria, ma è lui nel senso che lo compone e lo ha foggiato, è stata e prosegue, racchiuse e racchiude tuttora il suo divenire.

L’approccio comune, che consiste nel giudicare il carattere o la personalità altrui, (l’approssimazione dei termini adoperati dimostra del resto la superficialità dell’apprezzamento), presuppone che l’individuo possegga peculiarità volute o perlomeno relative direttamente alla responsabilità personale, che hanno determinato la propria storia, (d’altro canto, affermare il contrario attinge dallo stesso ragionamento puramente lineare), opinione contestabile per il semplicismo.

Ripetiamolo, per fortuna, l’umano risulta profondamente più complesso, il che significa anche contraddittorio e combattuto, che non gli abbozzi quasi uniformi proposti per motivi sociali o per facilità, più costruzione che creatura, ed è soltanto allora che si entra nel campo della volontà e della responsabilità. Vale d’altronde sottolineare che in diritto, per corroborare tali opinioni, non esiste la nozione di responsabilità collettiva, posizione spesso riproposta dagli storici, la cui analisi si concentra su un personaggio di spicco (in bene o male), i risultati di un regime, tuttavia tutt’altro che personale, sia pure basato sul culto della personalità.

Tuttavia, possiamo constatare quanto siano distinti le definizioni dell’uomo, in qualunque disciplina e i comportamenti che adoperiamo, perlopiù senza nessuna coscienza di farlo. È del resto particolarmente interessante sottolineare che nel rapporto con la natura, l’umano sia convinto di poter rispecchiarsi in qualunque animale a seconda delle tradizioni religiose e filosofiche delle varie popolazioni del globo, fino (perlopiù attraverso l’assimilazione della carne), ad acquistarne le qualità perché se ne ciba. In un certo senso, proprio per quel modo di nutrirsi, sia ancestrale o odierno, (anche se oggi, si è sempre meno consci degli alimenti ingurgitati), l’uomo è il re degli animali, quello che decide della sorte e dell’utilità delle altre specie, ma probabilmente innanzitutto, di dimostrare a se stesso il predominio su tutti, in altre parole, di elevarsi al di sopra della natura o perlomeno, di far parte dei grandi predatori, dunque di una categoria superiore.

Comunque, questa affermazione denota anch’essa quanto l’umano, non riesca a confrontarsi a nulla che gli concederebbe un riconoscimento, e si senta al tempo stesso solo, tranne rivolgersi a Dio, ed onnipotente di fronte alla natura, a meno che, tempesta, terremoto o eruzione, sia la natura a ricordargli che le prodezze tecnologiche non risparmiano dalle catastrofi, caso in cui prende allora e perlopiù, a invocare la fatalità e chiedere l’aiuto dei cieli, altra illustrazione della difficoltà nel situarsi e del continuo andirivieni tra ragione e credenze, il quale segna sicuramente drasticamente i limiti della persona, della comunità addirittura, poiché nessuno sa come mai le strutture colpite dal ciclone o dallo tsunami siano sorte da terra, proprio in quel posto e non altrove, e non siano resistite alla distruzione, quasi in più della furia degli elementi, esistesse sopra gli uomini, una civiltà delle tecniche autonoma, un esercito di macchinari e motori, persino di onde, raggi e particelle, in grado di imporre se non una volontà misteriosa, un’espansione inarrestabile quanto indipendente.

La fantascienza dipinge da alcuni decenni ormai, i tormenti di una società del “tutto tecnologico”, racconti la cui azione si svolge spesso “altrove  nell’universo” e in qualche “epoca futura”.  Viviamo noi con sempre più difficoltà nel definire luogo e tempo; viviamo in qualche modo, in una
realtà di fantascienza, utopia e ucronia, né luogo né tempo, oppure sono qualunque, uniformi, solo l’istante: “Io, sono!“, senza trascendenza.

M.B.

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Libertà di scelta e paura https://www.swissact.com/liberta-di-scelta-e-paura/ Mon, 08 Feb 2021 17:47:58 +0000 https://www.swissact.com/?p=2712 I moti che ci conducono sulle orme del nostro destino, rimandano tanto a un riconoscimento individuale che a un’appartenenza collettiva, e condizionano i nostri comportamenti finché non decidiamo a torto o ragione, problema sussidiario nel momento della scelta, della via da seguire.

La cultura odierna soffoca in nome di regole imprescindibili, (le leggi del mercato), ogni scelta immaginabile. Le religioni avevano ridotto la simbolica a verità, e cioè, assimilato la rappresentazione all’oggetto, la formulazione mentale a concretezza tangibile. Per esempio, il soffio di Dio sul Mar Rosso
non raffigurava più la capacità dell’uomo a superare gli ostacoli, le barriere, pure con un aiuto divino, ma diventava un fatto storico, per gli uni, dovuto ai polmoni di Yahweh, per gli altri a qualche sisma, fosse gioco della natura o miracolo compiuto.

Scherzi a parte, i mille e uno esempio che potremmo dare a riguardo, vanno ricollegati a una costatazione che non concerne né i cieli, né i capricci o movimenti delle placche tettoniche, bensì la mente  umana, in riferimento a una società e un’epoca definite.

Si pone tuttavia una domanda, se non altro risentita emotivamente da chiunque, confrontato a quello che siamo soliti chiamare “i tormenti e l’intimo dell’anima”: “Perché tanta paura?”, e soprattutto: “Di che cosa?”. Se alcune pratiche religiose possono suggerirci risposte relativamente convincenti, in
relazione all’onnipotenza, sia quella che immaginiamo di dover patire, sia quella che desidereremmo e ci illudiamo a volte di possedere, è dal campo della psicologia che vorremmo attingere i nostri argomenti.

Nell’avvertenza che precede «Gli archetipi dell’inconscio collettivo» di C.G. Jung, rileviamo la frase: “La straordinaria forza dell’inconscio collettivo viene (…) indagata nella sofferta condizione d’un individuo”, mentre di persona, Jung scriveva: “La dottrina dei primitivi è “sacra e pericolosa”. Tutte le dottrine esoteriche cercano di afferrare gli invisibili accadimenti dell’anima, e tutte rivendicano la massima autorità. Quel che è vero per quelle dottrine primitive vale ancor più per le religioni attuali. Esse contengono una rivelazione primitivamente segreta e hanno espresso i misteri dell’anima in figure splendenti. I loro templi e le loro sacre scritture annunciano in immagine e parola l’antica dottrina consacrata accessibile ad ogni animo credente, ad ogni intuizione sensibile, ad ogni più vasta indagine del pensiero“.

In queste poche frasi che ci immergono in un passato di cui ci manca ogni coscienza, anche se ci sembra talvolta familiare, vengono racchiusi tutti i presupposti di ogni elaborazione mentale, dalle visioni più idilliache a quelle più orride, che ricoprono tutti i possibili, tutte le sfaccettature immaginabili ed inaspettate o addirittura inverosimili, che rivelano la complessità dell’umano, i suoi eccessi, l’inafferrabilità dei suoi sentimenti come dei suoi atti.

Si creda o meno alla libera scelta, ricollegata a determinismi vari, non toglie che ciascuno, venga interpretata una decisione propria o condizionata, (e vale anche per i gruppi), di fronte a più possibilità, si risolve ad agire per rompere gli indugi, e prende l’iniziativa in una direzione o un’altra, qualunque giudizio si porti poi a questo proposito. Allora, risulta perlomeno che forze opposte, persino antagonistiche, possano palesarsi dentro un individuo, del resto sempre più o meno propenso ad indossare tutte le colpe così come tutti i meriti del mondo a titolo personale, e cioè a compiere tutte le azioni possibili, sin dal momento in cui ritiene d’essere giustificato, e queste forze, che lo abitano, chissà fino a che punto egli le domina, le gestisce, o invece, le subisce, lo sovrastano.

Per secoli, ad esempio, non solo l’insegnamento comune a quasi tutte le società: “Non ucciderai!”, venne ritenuto in quanto legge solo riguardo alla sfera privata, ma gli eserciti ricevettero la benedizione delle chiese senza che nessuno ci vedesse nulla da ridire. Per banale che sia, purtroppo, questo accenno fa apparire al di là di qualunque senso della realtà e qualunque significato, quanto siamo determinati nelle nostre azioni, dalla valenza simbolica ricoperta a prescindere dai vocaboli, da situazioni drasticamente distinte e differenziate, a seconda della posta, siano pure paradossalmente totalmente sviati o incompresi, i messaggi che racchiudono.

Sembrerebbe dunque che non abbiamo davvero la facoltà di approdare alla realtà se non  tramite un insieme di rappresentazioni che appartengono tanto all’immaginario quanto alla simbolica, il tutto per quanto sia comunque incompleto, definito tramite il verbo, senza mai riuscire a distinguere chiaramente, le varie dimensioni dei contenuti ai quali ci richiamiamo. Oggigiorno, la smania esacerbata del realismo ad ogni costo ci convince sia di circoscrivere il reale, sia di praticare, ci sembra la parola più adatta, il razionalismo; in verità, la nostra visione d’insieme risulta solo un arrangiamento estremamente complesso che attinge da tutte le elaborazioni di cui siamo capaci, indistintamente, ma anche casualmente e in funzione delle circostanze.

Se abbiamo un dubbio in proposito, ovvero, se siamo convinti di raggiungere una visione coerente ed esatta della realtà senza appellarci a tale complessità, e talvolta, confusione, basti ricordare quello che capita a tutti, di tanto in tanto: stiamo a raccontare un episodio qualunque tra amici, e arriva il solito ritardatario; riprendiamo il racconto da zero, perché possa seguire anche lui la discussione, ed ecco che un’altra versione, quasi quasi, più che dalla nostra bocca, come se il verbo ci dominasse, risuona a nostra insaputa, esagerando appena, e contro la nostra volontà.

Conosciamo bene questa peculiarità, del resto, quando ci riferiamo al concerto di qualche cantante di successo, talvolta a dimostrazione dei miracoli compiuti negli studi discografici, semmai lo spettacolo, tolta la scenografia e le varie ballatrici, ci lascia perplessi rispetto al disco comprato con entusiasmo la sera prima.

Solo la lingua scritta concede di ripetere alla lettera le medesime parole, ma come un attore non ripete mai la stessa prestazione, sarà comunque non senza qualche cambiamento di ritmo e di intonazione, che leggeremo uno stesso testo, ed è sempre interessante notare quanto siano poche le persone in grado di esprimersi agevolmente e chiaramente, senza ricorrere al supporto della scrittura; che la società odierna non ci porti attenzione è alquanto triste (i canali televisivi non esitano a proporre farfuglioni e addirittura presentatori afflitti da qualche difetto di pronuncia, senza parlare della moda adesso antiquata ma duratura della “r” moscia in alcuni ambienti), dato che l’elocuzione, indubbiamente, rispecchia il pensiero, (o la sua assenza), anche qualora indichi il significante.

“La sofferta condizione dell’individuo” risulta sicuramente anche dall’imperio del verbo, non di certo quello divino, venga pure mitizzato il cosiddetto linguaggio popolare, quello adoperato per strada magari, nonostante più spesso le comunità umane si esprimano secondo modelli che non hanno coniato, a imitazione di qualche capo dal gergo colorito, la cui parola prende un valore particolare, sin dal momento in cui in modo ridondante, l’eco supera il senso, o addirittura lo sostituisce.

Piero Chiara aveva illustrato simili linguaggi («Sale e tabacchi»), così: ““Al limite” dicono da un paio di anni tutti gli sciocchi che fino a due anni fa dicevano “nel caso estremo”, “in ultima analisi”, oppure “se non si può fare altrimenti””.

Sciolte le lingue, oggi, in sostituzione degli intellettualoidi bisognosi di una volta, sono i giovani (e non, categoria ancora più inaccessibile), che iniziano ogni incontro con: “Bella zio”, “zio pera”, “fichissimo!” o ancora “sei mitico”, altrettanti modi di dire che per non racchiudere un significato verbale, manifestano al tempo stesso un’appartenenza collettiva, non ben diversa del resto di chi non manca mai l’occasione di proclamare: “Noi…” seguito dal sostantivo che lo distingue dagli altri, sia “noi artisti, esperti vari o ladri”, qualunque sia la disciplina e una volontà di essere riconosciuti, sia pure fasulla, poiché non richiede
l’approvazione altrui. (Potremmo osservare la medesima postura in tutti i gruppi in cui la gerarchia impone le sue leggi, leggi che contrappongono al rapporto umano e alla comunicazione, l’ordine, sia pure ritenuto morale).

Nella tendenza più o meno segnata a seconda delle epoche e delle comunità, d’incuria della lingua, vi sarebbe quindi da rilevare prima ancora di questa rinuncia, un mancato riconoscimento, o in altri termini, un’assenza di empatia.

M.B.

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La cultura odierna è solo polvere? https://www.swissact.com/la-cultura-odierna-e-solo-polvere/ Mon, 25 Jan 2021 20:26:23 +0000 https://www.swissact.com/?p=2541 Se nessuno contesta quanto l’alimentazione sia fondamentale e determinante nella crescita dell’individuo, dalla giovane infanzia fino alla vecchiaia più avanzata, si rimane notevolmente più discreti per non dire muti trattandosi del nutrimento non tanto spirituale come una volta veniva decantato, quanto intellettuale, ammesso o meno che racchiuda il primo.

Se gli studi, sin dalla più tenera età, vengono ritenuti sufficienti ed efficaci nei paesi di tradizione accademica, la cultura degli ultimi decenni, tra intenzione di divertire e predominio americano, ha certamente impoverito (anche per ragioni economiche, con tagli importanti a riguardo), e parzialmente spogliato, il paesaggio culturale ed artistico dei paesi europei tradizionalmente portati alla creazione.
Altri motivi, probabilmente difficili da analizzare, complessi quanto oscuri, hanno partecipato a questo lento spegnimento dell’estro che ieri ancora li distingueva. Storicamente, i totalitarismi, con gli artisti del regime, hanno soffocato ogni espressione, quella artistica come e più delle altre, anche se l’Italia per esempio dimostrò un notevole risveglio nel La cultura odierna è solo polveredopoguerra, lo slancio si spense, oltre al calo delle entrate in cinema, con gli inizi della grande ristrutturazione, chiamiamola così, degli anni ottanta, periodo di lettura piuttosto complicato e oscuro.

Allora, la globalizzazione prese, quasi inosservata, un moto notevolmente accelerato e aggressivo, sancito da politiche estremamente rigide, dall’intervento sovietico in Afghanistan (27 dicembre 1979), poco dopo l’elezione di M. Thatcher a Downing Street e poco prima di quella di R. Reagan alla Casa bianca, e un po’ più di un anno e mezzo dopo l’assassinio di Aldo Moro, eventi sconnessi, ma certamente molto significativi di un’epoca in cui i conservatori (in Occidente come in URSS), ebbero il vento in poppa.

Allorché l’Iran vide gli ayatollah,  la morte di Tito annunciava le guerre fratricidi in Jugoslavia e la strage alla stazione di Bologna depistava le indagini, altrettanti eventi sconnessi, che tuttavia, segnarono la irresistibile ascesa di un’ideologia contraddittoria, (senza dimenticare l’ingresso dei “personal computer” in casa, fenomeno ancora molto limitato, ma dal futuro madornale). Nel maggio ’68 francese, il drammaturgo Ionesco si rivolse agli studenti dicendo loro: “Domani, sarete tutti notai!”; sbagliava.

Diventarono consumatori prima di essere cittadini, prima di essere umani, la svolta che ci trascinava verso l’odierno mondo, in cui miliardari, finanzieri, giganti dell’informatica e politici insipidi dalla maschera di gestori degli affari correnti, regnano appunto sul teatro dell’assurdo, in cui, tutti i personaggi, sebbene portatori di maschere ereditate per tratti somatici, in qualche modo rielaborati secondo emozioni espresse più o meno regolarmente ed eventualmente fino a smorfie ridondanti, (e l’abbiamo già evocato, in cerca della propria identità, che plasmiamo senza mai riuscire pienamente a rispecchiare il nostro intimo più vero), ma di “coprifaccia” per così dire, che nascondano emozioni e sentimenti, magari pensieri, in modo tale da non influire sull’unico fine ritenuto a questo punto socialmente accettabile: “L’abito fa il monaco”.

“Chi sei?” equivale allora a “Cosa vali sul mercato?“, a qualunque livello, persino nelle relazioni intime, in funzioni di criteri vari, largamente magnificate dai media, dal momento che rispecchia un consumo, un valore contabile.
M.B.

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L’essere discontinuo ed il liberalismo realtá od ipotesi? https://www.swissact.com/lessere-discontinuo-ed-il-liberalismo-realta-od-ipotesi/ Mon, 18 Jan 2021 11:36:09 +0000 https://www.swissact.com/?p=2456 Se ogni fine rappresenta l’inizio di altro, ci riferiremo a Bataille che riteneva l’uomo “un essere discontinuo”, quale mortale. Questa definizione ci sembra appropriata per altri motivi, da un lato (ci sono sempre tante cose da sistemare, tante interferenze, interruzioni, messaggi vari e quasi simultanei se non contraddittori, necessità immediate siano pure fasulle) ancora sociali ma a livello individuale e abitudinario dall’altro, considerato che svolgere un’attività secondo un filo conduttore ininterrotto e coerente, non fa più parte del costume ordinario e assimilato da tutti, semmai questo tipo di razionalità ed efficacie fosse esistita una volta.

Discontinuo, di sicuro, e soprattutto perché come un fiume che rompe gli argini, al corso logico di qualsiasi discorso o azione, si sostituiscono considerazioni che non concernono chi ne subisce le conseguenze, pilastro delle nostre società sul piano economico.

Per esempio, guardare un film in televisione significa cinque o sei serie di messaggi pubblicitari che inquadrano e interrompono la trasmissione, di cui come se non bastasse, paghiamo il costo quando compriamo il prodotto in questione.
In altre parole, non più essere ritenuti persone, cittadini, qualsivoglia tipo di creature umane, ma consumatori, cioè clienti (quello che è sotto la protezione, che ascolta), ovvero uomini di seconda classe, ci riduce in primo luogo ad anelli passivi del sistema, a individualità anonime se non confuse.

Il liberalismo, che riposava su mercati aperti e possibilità varie d’intraprendere, sembra salvo casi eccezionali, un formidabile macchinare che non concede nemmeno più ai suoi sostenitori, le legittime aspettative che potrebbero nutrire.

In qualche modo, la globalizzazione, al tempo stesso effetto e causa, dopo che gli stati hanno istituito sotto forme diverse, le strutture che permettessero lo sviluppo di un giro d’affari quasi illimitato entro i confini, ma anche oltre, devono far fronte o perlopiù cedere a una situazione di concorrenza spietata che mina la concorrenza stessa, per sboccare su monopoli più o meno mascherati, (i giganti dell’informatica e delle comunicazioni, termine sempre meno definito ne sono un esempio negabile, ma vale in quasi tutti i settori di attività, e purtroppo, anche per l’alimentare, – la cosiddetta “grande distribuzione”), che agiscono al di sopra delle nazioni, eventualmente contro l’interesse delle stesse, (e cioè contro le loro popolazioni, composte da cittadini prima di chiamarli consumatori), ma soprattutto, (era il sogno dell’internazionalismo comunista), segna la fine del liberalismo in quanto ideale e possibilità d’intraprendere per tutti quelli, desiderosi di creare attività commerciali qualsiasi, e cioè di lavorare in proprio; invece di diventare pubblici funzionari, i membri della stragrande maggioranza, sono condannati a diventare dipendenti di cartelli le cui ramificazioni in settori multipli risultano talmente estese che ben difficilmente, sapranno realmente quale sia oltre a guadagnarsi uno stipendio, quali interessi economici e non solo, servono.

La motivazione dell’impiegato, se non strettamente personale in senso individualistico, non può nemmeno più essere rivolta all’idea di nazione, e questo tra l’altro, perché gli stati legiferano volente nolente, in tal modo di delegare a queste aziende, gran parte del potere e del ruolo affidati loro ieri ancora. Il lavoro stesso, perduto il significato collettivo che spetta ad ogni attività umana, (nulla si fa senza un fine definito, è il principio stesso della libertà), si scioglie nell’assenza di finalità comune, poiché questa finalità medesima, non rivela alcun bene o appartenenza condivisa, e come lo scrisse Galimberti («I miti del nostro tempo»): “Ma quando l’umanità, come oggi avviene con la globalizzazione, diventa idealmente un solo gruppo, funzionale alla logica del mercato, ma non alla logica dello stato, i processi di identificazione e di autoidentificazione non possono più riferirsi ai ruoli primari del sesso, dell’età e della capacità generazionale come nello stadio dell’identità familiare o tribale, e neppure al ruolo di cittadino come nella logica statale, ma in concorrenza con tutti questi ruoli, che comunque non vengono eliminati, i processi di identificazione e di autoidentificazione avvengono nella forma di una rappresentazione di sé nella molteplicità dei ruoli funzionali dell’apparato economico, che supera le vecchie identità non più referenziali a favore di identità sempre più astratte e, in quanto astratte, artificiali.”

L’identità scomparsa, (abbiamo proposto in precedenza alcuni argomenti in proposito), corrisponde a una mancanza di riconoscimento, siano pure le lodi distribuite come caramelle in ogni occasione, dato che non è la persona che viene considerata, ma il ruolo che svolge, indistintamente, o addirittura, neanche quello, ma la parvenza, l’esteriorità che la società quale ente sempre più indeterminato, prefigge, a seconda dell’aria che tira, di quello che sul momento sembra di poter raffigurare un’immagine convincente, meno di ciò che è, che dell’illusione che converrebbe diffondere, alla quale aggrapparsi nell’attesa di meglio.

Il miraggio che consiste nel credere che l’apparenza fasulla possa sostituire ogni rappresentazione realistica o immaginaria non è comunque un fenomeno culturale nuovo, e probabilmente, culla le speranze dei cittadini, ogni volta che una crisi sufficientemente acuta e durevole si presenta. In altre parole, colma il vuoto lasciato da un dubbio o persino da un crollo dei valori estetici tipico dell’eterogeneità e della disunione dei membri di una medesima collettività, la quale trova in esotismi diversi un compenso alla scomparsa o alla titubanza dei propri riferimenti, dei punti fermi oramai traballanti.
M.B.

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